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La cognizione distribuita

La nozione di cognizione distribuita è alquanto semplice, quasi ovvia. Le nostre prestazioni mentali, i risultati che riusciamo a ottenere con la nostra mente, non dipendono solo da noi, da quanto siamo capaci come individui. Dipendono dall’interazione tra la nostra mente e il mondo circostante. Variano a seconda degli oggetti che ci circondano, degli strumenti di cui disponiamo, delle persone con cui abbiamo a che fare e a seconda di come ci rapportiamo a cose e [intorno a noi.

La stessa persona, con la sua stessa mente, le sue conoscenze e le sue abilità, può avere prestazioni eccellenti in un contesto e pessime in un altro. Due persone nello stesso contesto possono avere prestazioni molto diverse, anche se le loro capacità individuali sono all’incirca le stesse. Può accadere se una delle due riesce a rapportarsi in modo più vantaggioso agli oggetti, agli strumenti, alle persone presenti in quell’ambiente.

Tutto ciò che ci circonda può migliorare le nostre prestazioni o al contrario peggiorarle. Una lunga tradizione di studi sulla facilitazione e inibizione sociale, che dalle origini della psicologia arriva ai nostri giorni, dimostra che le altre persone possono influire in modi opposti sul nostro rendimento a seconda delle circostanze [...]

Un discorso analogo vale per gli oggetti che ci circondano. Il cruscotto della mia automobile può essere strutturato in modo da facilitarmi la guida e ridurre il rischio di incidenti o essere invece progettato male e costringermi a fare operazioni inutili o che sarebbe meglio non fare. La mia cucina può essere strutturata in modo che il lavoro scorra più o meno bene.

Ci sono poi gli strumenti, i supporti creati apposta per aiutare il lavoro della nostra mente. Vanno dai più semplici, come la lista della spesa sul frigorifero o gli impegni della giornata in agenda, ai  testi da consultare, alle rappresentazioni grafiche, a strumenti più sofisticati, come Internet o app o software. Gli strumenti sono aiuti per la memoria, ci consentono di approvvigionarci di informazioni quando ci servono, ma ci mettono anche in grado di pensare ­secondo modalità che non riusciremmo ad attuare senza il loro supporto.

Sebbene siano pensati appositamente per migliorare le nostre prestazioni, anche questi non sempre ci facilitano e a volte risultano anche controproducenti. Ad esempio, le comuni prescrizioni mediche non funzionano del tutto bene come aiuti per la memoria del paziente, specie quando ci sono più medicine da prendere in orari diversi.

Di regola le prescrizioni riportano il nome della medicina e di seguito come prenderla. Ecco un esempio:

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Inderal

una compressa tre volte al giorno (colazione, pranzo e cena)

Lanoxin

una compressa a colazione

Carafate

una compressa quattro volte al giorno (colazione, pranzo, cena e prima di coricarsi)

Zantac

una compresa ogni 12 ore (pranzo e prima di coricarsi)

Quinaglute

una compressa quattro volte al giorno (colazione, pranzo, cena e prima di coricarsi)

Coumadin

una compressa al giorno (prima di coricarsi)

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Questo modo di prescrivere risponde alla logica del medico, che pensa ai farmaci di cui il paziente ha bisogno e per ciascun farmaco a come va preso. Va bene anche per il farmacista, che deve andare a prendere uno per uno i farmaci prescritti. Ma i ricercatori hanno scoperto che una percentuale consistente di pazienti, dal 10 al 30% a seconda della complessità delle prescrizioni, non riesce a ricordare i farmaci da prendere. I portapillole con scomparti su cui è scritta l’ora possono aiutare, ma non risolvono il problema. La psicologa Ruth Day [71] ha trovato una soluzione tanto semplice quanto efficace: scrivere le prescrizioni in tabelle a doppia entrata.

Dal libro Empowerment. Che cosa vuol dire?

Prescrizione con tabella a doppia entrata

L’aggancio che funziona meglio per ricordare il “quando” è un’attività ripetitiva della giornata, come i pasti o il coricarsi. Per non commettere errori il paziente deve poter partire dal ricordo del “quando” e di qui arrivare al “che cosa”. Il cammino inverso è più impegnativo, perché richiede di avere in mente la logica della terapia, mentre si è immersi nelle vicende della vita quotidiana con la loro scansione.

Con la tabella a doppia entrata gli errori dei pazienti praticamente scompaiono. La cosa si spiega perché la tabella tiene conto di come funziona la nostra memoria prospettica, la memoria delle cose da fare in futuro. Dobbiamo ricordare il “che cosa” e il “quando”, ma per la nostra mente è più semplice partire dal “quando” e arrivare al “che cosa”, piuttosto che fare il percorso contrario. La tabella a doppia entrata consente di andare dal “quando” al “che cosa” e anche di fare una verifica, partendo dai “che cosa”.

Le prescrizioni mediche per i pazienti sono un esempio di strumenti che funzionano poco. Può accadere però che gli strumenti risultino addirittura controproducenti e peggiorino le nostre prestazioni. È quel che succede, ad esempio, quando documentandosi sul web una persona si forma convinzioni errate o quando l’uso di device porta a orientare la concentrazione in modo disfunzionale. Norman, pioniere degli studi sulla cognizione distribuita, chiarisce bene che gli strumenti sono armi a doppio taglio.

Ho due notizie da darvi sulla tecnologia: quella buona e che può farci intelligenti, ed effettivamente lo ha già fatto […] Ma… la cattiva notizia è che la tecnologia può renderci anche stupidi.

Nonostante sia quasi ovvia, la nozione di cognizione distribuita si è affermata solo verso la fine del Novecento. L’idea che la nostra mente è un elaboratore che opera in isolamento e può contare solo sulle proprie forze, oltre che radicata nel senso comune, si ritrova nella tradizione filosofica. A lungo ha dominato anche in psicologia e nelle altre scienze cognitive.

Gli psicologi cognitivi hanno stentato a rendersi conto che le prestazioni mentali sono legate all’interazione con l’ambiente, perché fino agli anni Settanta hanno privilegiato le ricerche di laboratorio. Invece di studiare le prestazioni mentali nei contesti reali di vita quotidiana, avevano preferito condurre esperimenti in cui a individui isolati si chiedeva di svolgere compiti in situazioni artificiose. In convegni degli anni Settanta comincia un’autocritica degli stessi psicologi cognitivisti, che culmina nella pubblicazione del libro di Ulrich Neisser, Cognition and reality, del 1976, che inaugura l’approccio ecologico. Il nuovo approccio sostiene che le prestazioni mentali vanno studiate mentre le persone sono immerse nei contesti reali di vita quotidiana, dove la mente con ogni probabilità funziona in modo diverso rispetto a quando viene messa a lavorare in isolamento dentro un laboratorio.

Con l’approccio ecologico arrivano in effetti scoperte che fanno rivedere certe convinzioni precedenti sulle prestazioni mentali. Ad esempio, nelle prove di laboratorio gli anziani mostravano di avere una memoria peggiore dei giovani, ma nella vita reale le loro prestazioni di memoria risultavano generalmente paragonabili a quelle dei giovani e in alcuni casi nettamente migliori.

In uno studio di Morris Moscovitch, in cui si chiedeva di fare una telefonata in giorni e orari stabiliti, le prestazioni degli anziani sono risultate nettamente superiori, col 90% di perfetta memoria contro il 20% dei giovani [72]. I giovani avevano troppa fiducia nelle capacità di memoria della propria mente e diversamente dagli anziani non si avvalevano di strategie, come lasciare un biglietto accanto al telefono.

La nozione di cognizione distribuita è entrata però ufficialmente nella tradizione scientifica solo più tardi, negli anni Novanta, grazie al lavoro di Donald Norman e Edwin Hutchins. Norman è interessato più che altro agli oggetti, a come la loro costruzione e la loro disposizione negli ambienti può influire sulle nostre prestazioni. Things that make us smart è il titolo del suo libro del 1993, dove analizza tra l’altro pannelli di comando di cabine di pilotaggio di aerei, di navi, di impianti industriali, trovando come siano spesso mal costruiti [73].

Hutchins si è interessato di più a come il rapporto con le altre persone influisca sulle prestazioni mentali, per cui parla anche di socially distributed cognition. Viene da una formazione di antropologia culturale ed è abituato a pensare che insieme le persone possono darsi organizzazioni che consentono loro di svolgere attività che non riuscirebbero a fare da soli. Si trova a lavorare per la Marina Militare e, analizzando quel che accade su una nave, si accorge che c’è un’intelligenza distribuita, grazie alla quale la nave può essere pilotata. Il titolo del suo libro è Cognition in the wild, per sottolineare che quando studiamo la mente nell’ottica della cognizione distribuita la vediamo al suo stato naturale, “selvaggio” [74].

 La sfida della cognizione distribuita

Il rapporto con l’ambiente può migliorare come peggiorare le nostre prestazioni mentali. Nel complesso però il fatto di non essere isolati, di avere attorno gli altri, le cose, gli strumenti, ci avvantaggia. Non riusciremmo a fare tutto ciò che facciamo, se dovessimo fare affidamento solo sulla nostra mente.

Anche se abitualmente traiamo vantaggio dalla cognizione distribuita, le potenzialità di questa sono di gran lunga superiori a quelle che sfruttiamo. Ci sono barriere, ostacoli che ci fanno sottoutilizzare o utilizzare male le risorse presenti nell’ambiente e in grado di migliorare le nostre prestazioni mentali. Oggi le potenzialità della cognizione distribuita sono enormemente cresciute, specie per effetto dello sviluppo tecnologico, in particolare per le nuove tecnologie della comunicazione, a cominciare da Internet.

Sul web possiamo rapidamente controllare come si scrive una parola di un’altra lingua, verificare il cambio attuale euro/dollaro, analizzare l’andamento di questo cambio negli ultimi anni, reperire articoli di leggi o altre norme che ci interessano, trovare pesi molecolari e fare calcoli di concentrazione molare magari semplicemente adoperando un calcolatore predisposto, come possiamo passare in rassegna la recente letteratura scientifica su un argomento, ad esempio quello di cui ci stiamo occupando qui, digitando “distributed cognition”.

Fin da quando è nata, la scrittura ha potenziato le prestazioni della mente umana, consentendo, ad esempio, di tenere l’inventario dei magazzini, i registri contabili o altri documenti e fornendo così una memoria artificiale più affidabile [75]. Successivamente con la stampa e ancor più con le nuove tecnologie la scrittura è divenuta una risorsa davvero straordinaria.

Internet ci permette anche di consultarci con altri a distanza, allargando il raggio delle persone che possono contribuire alle nostre prestazioni mentali. I software, accanto a calcoli relativamente semplici, ne permettono altri davvero impensabili per la nostra mente isolata. Ad esempio, ci mettono in condizione di stimare la probabilità che un evento accada o sia accaduto sulla base di analisi multifattoriali, che tengono conto di numerosi fatti che conosciamo e che intrecciandosi in vario modo possono influire sull’evento che ci interessa. Così, inserendo semplicemente dei dati, sfruttiamo complessi modelli matematici e algoritmi che i ricercatori hanno costruito. Ci sono software in grado di assisterci anche nell’apprendimento e migliorare nel tempo le nostre prestazioni, come i calibratori di giudizio, che ci aiutano ad autovalutarci correttamente.

La sfida della cognizione distribuita si profila quando riflettiamo sulla contraddizione tra le potenzialità che il mondo oggi ci offre e gli ostacoli che ci impediscono di sfruttarle. Possiamo migliorare molto le nostre prestazioni mentali, ma tendiamo a farlo poco, perché non facciamo interagire abbastanza le nostre menti con gli ambienti circostanti. Continuiamo a far troppo affidamento sulle risorse della mente isolata, “disincarnata”, come dice Norman. Non solo sottoutilizziamo le risorse che l’ambiente ci offre, ma, quando le usiamo, spesso lo facciamo male, in modo poco efficiente se non controproducente [...]

La sfida della cognizione distribuita è di particolare interesse nel campo delle professioni. I professionisti possono trarre grande giovamento dall’abitudine alla cognizione distribuita. Consideriamo un’attività come quella medica. La cognizione distribuita consente di realizzare nuove forme di aggiornamento e formazione e di alzare il livello di qualità e sicurezza delle prestazioni.

Tradizionalmente i medici si aggiornano studiando per conto proprio, andando ai congressi, partecipando a corsi di formazione. Oggi un medico può accedere a un motore di ricerca scientifico e, se sufficientemente abile, in breve tempo consultare linee guida o gli ultimi sviluppi della ricerca su un tema. Può impostare la sua ricerca a partire da un caso clinico di cui si sta occupando o da un problema che ha riscontrato nell’esercizio della professione, ad esempio definire il percorso diagnostico più adatto in certe situazioni. Nulla vieta che la ricerca sia condotta di concerto con colleghi della stessa specialità o di altre specialità, che ci si confronti nel gruppo di studio e che si estenda poi il confronto ad altri. Un aggioramento del genere ha il pregio di essere tagliato su misura, centrato su problemi che effettivamente il professionista incontra. Ha anche ricadute positive sulla collaborazione tra colleghi e sull’intera organizzazione. Fatto non meno interessante, autonomizza: i professionisti imparano ad aggiornarsi accedendo direttamente alla scienza, senza dipendere sempre da esperti e formatori, da altri incaricati di mediare tra scienza e operatività.

Di grande utilità nella formazione dei professionisti della salute sono i software per elaborare curve di calibratura. In medicina abitualmente ci si trova a esprimere giudizi probabilistici, non di certezza. Come fa un medico a stabilire quanto è affidabile il proprio giudizio? Abitualmente i medici si basano su impressioni e ricordi. A rigore però bisognerebbe costruire curve di calibratura, cosa che appositi software consentono di fare agevolmente. Ogni volta che esprimo un giudizio, quantifico la probabilità che secondo me ha di essere corretto e poi vado a riscontrare se statisticamente le mie previsioni collimano coi fatti. Ad esempio, se 10 volte ho fatto un prelievo per la batteriemia e in tutti e 10 i casi ho stimato del 100% la probabilità che l’emocultura fosse positiva, devo avere 10 emoculture positive su 10.

Le ricerche empiriche indicano che i medici tendono all’overconfidence, cioè che sovrastimano l’affidabilità dei loro giudizi. In uno studio di Poses e Anthony in 227 casi di sospetta batteriemia i medici mostravano una chiara overconfidence, arrivando addirittura a esprimere stime di positività del 100% che poi si rivelavano del 40% [76].

L’overconfidence ha effetti dannosi, non solo perché fa commettere errori, ma anche perché spinge a evitare la cognizione distribuita [77]. Il medico che si fida molto dei propri giudizi non sente il bisogno di consultare la letteratura, confrontarsi con i colleghi, avvalersi di linee guida, procedure o altri strumenti. Si crea una spirale di supponenza e ignoranza, che il semplice uso di un software può rompere. Col software il clinico può facilmente scoprire quanto i suoi giudizi sono di fatto affidabili. Questo gli permette di valutarsi più realisticamente e al tempo stesso di affinare le proprie abilità di giudizio.

L’uso di software permette di fare valutazioni altrimenti praticamente impossibili. Ad esempio, nello screening mammario, possiamo servirci di un software per calcolare la probabilità che una donna ha di avere un cancro al seno sulla base dei fattori di rischio. Dietro il calcolo che fa il software ci sono modelli matematici e complicati algoritmi. Senza quel calcolo il clinico avrebbe solo delle vaghe impressioni e farebbe valutazioni grossolane.

I software sono di aiuto anche per la sicurezza. Quando il medico adopera più farmaci contemporaneamente, deve chiedersi se non ci siano interazioni tra questi farmaci che possono risultare dannose. Certe interazioni minacciano la vita stessa. Oggi a disposizione del medico ci sono software, costantemente aggiornati in base ai dati della letteratura scientifica, che segnalano le interazioni. Basta digitare i nomi dei farmaci. Tenere a memoria tutte le interazioni note è un’impresa davvero ardua e oltre tutto è poco sensata, visto che le informazioni sono accessibili in qualsiasi momento.

La professionalità dei medici viene migliorata significativamente anche da strumenti molto semplici, come i grafici. Quando si tiene sotto monitoraggio un parametro (markers tumorali, emoglobina, enzimi epatici, ecc.), solitamente ci si limita a fare raffronti mentali tra i valori di determinazioni successive. A volte si vanno a rivedere i valori precedenti, a volte ci si fida della memoria. In ogni caso raramente si sente il bisogno di tradurre l’andamento in grafici. Così si rischia di commettere errori: non valutare correttamente l’entità di certe variazioni, non rendersi conto che, a dispetto delle oscillazioni, l’andamento è stabile, non cogliere i nessi tra movimenti di parametri diversi e via dicendo.

In medicina può essere di grande aiuto anche il confronto tra colleghi, che pure le tecnologie della comunicazione possono favorire. Ad esempio consentono di chiedere un parere a distanza a un centro superspecialistico o di inviare immagini di esami radiologici o istologici e confrontarsi sulla loro interpretazione.

Per i medici, come per gli altri professionisti, i vantaggi della cognizione distribuita sono evidenti. Eppure nelle professioni la cognizione distribuita resta sottoutilizzata. Gli ostacoli principali sono culturali e in buona parte legati al modo tradizionale d’intendere la competenza professionale e le professioni.

Siamo abituati a considerare la competenza professionale alla stregua di un possesso che la persona ha. Questo modo di vedere implica una serie di convinzioni, che, non appena si comincia a ragionare in termini di cognizione distribuita, finiscono per essere ribaltate. La cognizione distribuita richiede di cambiare paradigma, di passare a una nuova concezione, in cui le competenze sono distribuite dinamicamente tra mente del professionista e ambiente, non sono le sue.

I due paradigmi di competenza professionale a confronto

Cambiare paradigma è oggettivamente difficile. Per come sono intese le professioni nella nostra civiltà, il possesso di competenze è alla base del riconoscimento dello status e del ruolo del professionista. Un medico è medico e si distingue da un non medico in quanto possiede competenze in materia sanitaria che gli altri non posseggono. La formazione professionale è impostata in quest’ottica: mira a preparare persone che garantiscono un buon servizio professionale perché depositarie di un sapere specialistico. Per il professionista sentirsi in possesso delle competenze del settore è parte della propria identità. Gli altri del resto tendono a guardare a lui in questo modo, a cominciare dai clienti che si rivolgono al professionista. Il diritto spinge nella stessa direzione, presupponendo che il professionista deve sapere certe cose ed è responsabile se non le sa. Alcune professioni sono disciplinate dal diritto, che ne vieta l’esercizio a chi non possiede determinati requisiti.

A ben guardare, i ragionamenti che ci spingono a pensare che per riconoscere le professioni occorre adottare il paradigma del possesso hanno sotto un errore logico. Il professionista si distingue non in quanto possiede perennemente determinate competenze. È tale, un professionista di un dato settore, nella misura in cui è in grado di sfoderare le competenze che occorrono quando occorrono. Non c’è alcun bisogno che le abbia sempre con sé. Questo comporta però un modo più fluido, più flessibile di pensare, poco diffuso nella nostra civiltà, che conserva strutture formali rigide, a dispetto dei grandi cambiamenti che nei fatti la rendono ogni giorno più fluida.

I professionisti stentano ad avvalersi come potrebbero della cognizione distribuita anche perché spesso difettano delle abilità necessarie. Hanno scarso approccio scientifico, coltivano convinzioni ingenue, come nel caso dell’overconfidence, e non hanno quell’abitudine a sentirsi ignoranti che è fondamentale per cercare conoscenze fuori di sé. A volte non hanno abilità funzionali di base, come la conoscenza delle lingue o l’arte di cercare informazioni in un sistema come il web.

Nel mondo delle professioni il problema della cognizione distribuita si pone anche per gli utenti, per quelli che si avvalgono dell’opera dei professionisti. Oggi hanno facile accesso alle conoscenze specialistiche e potrebbero diventare partner dei professionisti, passando a una modalità meno infantile, più matura e responsabile di servirsi dell’opera di esperti. Anche qui però sono di ostacolo le abilità e le barriere culturali. Quando il non specialista si documenta, rischia di trarre poco giovamento dal suo lavoro di ricerca o addirittura di finire fuori strada. D’altra parte il sistema delle professioni scoraggia il suo muoversi in autonomia. Chi lo fa, chi si muove in autonomia, si avventura in un terreno nuovo, dove non è detto che venga ben accolto.

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